“Dramma familiare” (CdT/tio); “Grave fatto di sangue” (CdT, RSI, tio); “Tragedia” (CdT); “Delitto” (Ticinolibero); “Donna morta” (tio), “Omicidio” (CdT, RSI, laRegione) queste alcune delle parole presenti nei titoli dei media locali. Nessuno, ma proprio nessuno usa il termine femminicidio per descrivere quanto accaduto ieri mattina a Lodrino, quando una donna di 21 anni è stata uccisa da un uomo di 27. Eppure, è un lemma che ben si presta a narrare l’accaduto e che è presente in tutti i dizionari di lingua italiana e nelle enciclopedie. Nessuno parla nemmeno di violenza sulle donne.
Si insiste invece con una narrazione stereotipata della vicenda: gli articoli ricordano che la donna era di nazionalità romena, non residente e “vicina al mondo della prostituzione”, lui invece un bravo ragazzo, un gran lavoratore che “aveva ottenuto un riconoscimento classificandosi sul podio in una competizione”.
Queste narrazioni tendono a sminuire l’accaduto, a giustificare i comportamenti violenti contro le donne e cercare delle attenuanti nell’agire dell’uomo. Si tratta di una grave forma di banalizzazione della violenza, anche nella sua espressione più feroce.
Non sappiamo esattamente cosa sia successo in quella casa, ma gli elementi a disposizione portano inevitabilmente verso l’ipotesi di femminicidio. Usare il termine femminicidio, inteso come “uccisione di una donna quando il fatto di essere donna costituisce l’elemento scatenante dell’azione criminosa”, permette di ribadire l’origine strutturale e sistemica di questa violenza. Una violenza che si fonda su una cultura sessista e patriarcale che non riconosce alle donne il pieno diritto all’autodeterminazione e alla libertà di scelta.
Questa cultura, definita anche “cultura dello stupro”, accetta e normalizza la violenza contro le donne, che assume forme diverse: dalle battute, alle molestie, alle immagini degradanti, alla violenza psicologica, fisica, sessuale fino ad arrivare al femminicidio. È una cultura veicolata anche dalla televisione, dai media, dai social e dalla pubblicità. In questo senso la decisione recente del parlamento di non accettare la proposta di vietare la pubblicità sessista, omofoba e razzista appare coerente.
Come per la pubblicità, anche l’utilizzo di un linguaggio adeguato nei media, soprattutto nel racconto di questi atti di violenza, diventa fondamentale per rendere inaccettabile ciò che si vuole normalizzare e banalizzare. In questo caso, come in altri, l’uso del termine femminicidio permetterebbe di promuovere un rovesciamento di prospettiva, mostrando la reale natura e significato di tali atti. È essenziale mettere al centro la questione della violenza sulle donne, senza mai giustificare, sminuire o considerare eccezioni dovute a raptus di follia eventi che invece sono saldamenti radicati nella nostra cultura.