Lavoravo e mi occupavo da sola della casa e dei figli.
Mio marito lavoricchiava, beveva birrini, era molto simpatico a tutti e aveva altre donne.
Protestavo. Non era giusto.
“Io agisco così perché tu sei insopportabile” diceva.
“Devi imparare a stare al tuo posto” diceva.
“Senza di me non sei niente, sei un’incapace” diceva.
“Cosa devo fare con te? Ammazzarti?” diceva.
Quando le parole non bastavano più ha iniziato ad essere aggressivo.
Un giorno mi ha messa all’angolo e ha tirato tre pugni contro il muro, accanto al mio viso.
Si è rotto la mano.
Ho avuto paura. Tanta paura.
Mia figlia di 7 anni è intervenuta, solo in quel momento ho capito che lui non avrebbe mai capito.
Non volevo “stare al mio posto”.
E così me ne sono andata, coi bimbi per mano.
Ma le minacce proseguivano, telefonate, scenate, “ti ammazzo”, “sei una puttana”.
Un giorno ho trovato il vetro della mia auto fracassato.
E così l’ho denunciato.
Perché non volevo “stare al mio posto”.
Non è facile.
Ti senti dire nel nuovo millennio, in Svizzera da poliziotti, avvocati, giudici e psicoterapeuti che:
- “gli uomini quando non sanno più cosa fare diventano aggressivi, si sa”
- “In fondo signora l’ha sposato lei“
- “Signora, lei vuole solo litigare!”
- “La cosa migliore che può fare, signora, è non farlo arrabbiare”
Molte istituzioni mi hanno detto di stare al mio posto.
In Svizzera. Nel terzo millennio.
Signora deve capire. Signora deve accettare.
Poi un giudice coraggioso l’ha condannato.
Nella violenza e nelle minacce non c’è niente da capire. Non c’è niente da accettare!
E il mio pensiero va a tutte le donne che non sono rispettate dai loro compagni e mariti.
Che subiscono violenze, minacce, aggressioni.
E che quando trovano il coraggio per denunciare si trovano davanti istituzioni sorde.
È ora di dire basta. È ora di pretendere un cambiamento.
Nessuno deve più dirci di “stare al nostro posto”.