Mentre in Iran proseguono le esecuzioni capitali, ieri a Zurigo si è svolta una manifestazione a sostegno delle proteste in Iran, un’azione che ha visto la partecipazione di 3’000 persone.
Il collettivo Io l’8 ogni giorno segue da mesi con attenzione e preoccupazione lo sviluppo degli eventi in Iran e sostiene tutte le forme di solidarietà e sorellanza verso il popolo iraniano, in particolare verso tutte le donne e le persone che, mettendo a repentaglio la loro vita, coraggiosamente continuano a battersi contro un regime teocratico e patriarcale.
Le proteste in Iran, come noto, scoppiano dopo la morte di Mahsa Amini, una ragazza iraniana di origini curde di soli 22 anni. Mahsa, in visita a Teheran presso dei parenti, è stata fermata e arrestata dalla polizia morale perché non indossava correttamente l’hijab. Due giorni dopo l’arresto la ragazza è stata dichiarata morta. Le autorità comunicano che il decesso è avvenuto per cause naturali. La famiglia si indigna perché non è stata informata prima della morte della ragazza e l’opinione pubblica, attraverso i social, delegittima la narrazione dei media di regime.
Le proteste iniziano in maniera spontanea, ma la repressione è durissima: molte donne, persone, giornaliste/i, attiviste/i vengono uccise, arrestate, torturate. Parallelamente, i social sono bloccati e rallentati per impedire la circolazione di informazioni e la possibilità di organizzarsi. Nonostante ciò, le manifestazioni continuano e si intensificano con la sepoltura di Mahsa.
La partecipazione al funerale è numerosa e sentita e assume tratti identitari legati alle rivendicazioni del Kurdistan iraniano. Lo slogan “Donna. Vita. Libertà” è infatti di origine curda, ma diventa subito il motto delle proteste che si diffondono in tutto il paese, anche in quei luoghi che tradizionalmente sono estranei a forme di ribellione.
Dall’inizio delle manifestazioni sono centinaia le persone uccise, tra cui decine di ragazze minorenni; e migliaia le persone fermate, arrestate, scomparse.
In una prospettiva storica e femminista possiamo leggere la questione del velo come uno dei tanti tentativi di contenimento simbolico del corpo femminile. Già nel 1979, dopo la rivoluzione islamica, il 7 marzo venne emanata una legge che imponeva l’obbligo dell’hijab alle donne. Il giorno dopo, l’8 marzo del 1979 le donne iraniane invasero le strade e le piazze del paese e, attraverso la loro protesta, riuscirono a ritardare di due anni l’introduzione della legge.
Nei decenni successivi non mancarono altri avvenimenti significativi di lotta al patriarcato, ma è indubbio che nessun movimento, da quel lontano 1979, ha più avuto una durata così lunga e una partecipazione così diffusa nelle diverse classi sociali e nei differenti gruppi etnici come quello attualmente in corso. Particolarmente significativa è la solidarietà mostrata dagli uomini – mai vista prima; e la partecipazione molto attiva degli strati più giovani della popolazione.
Un’adesione così ampia si spiega perché le proteste in Iran riguardano i problemi che a vari livelli colpiscono il paese: nella lotta del popolo iraniano si intrecciano rivendicazioni di carattere politico, economico e sociale. È comunque innegabile che la miccia delle manifestazioni siano state le questioni legate al patriarcato e le proteste delle donne iraniane ci mostrano il collegamento che esiste tra il diritto all’autodeterminazione delle donne – tra cui vi è il diritto di vestirsi come si desidera, ma anche il diritto di interrompere una gravidanza – e la costruzione dell’identità nazionale, che avviene attraverso l’imposizione di norme che regolano il corpo delle donne e la loro libertà di scelta.
In questo modo le iraniane ci ricordano come, ancora oggi, il comportamento delle donne sia una questione tutt’altro che privata, ma pubblica e di stretta attualità politica. Lo slogan Jin, Jîyan, Azadî, palesa che le questioni in gioco ci riguardano da vicino perché concernono prima di tutto la libertà e la dignità delle donne.