Presentando i dati sulla struttura dei salari, la stampa nazionale e cantonale ha messo in evidenza una diminuzione del divario salariale tra uomini e donne in modo che alcune testate sembrano quasi voler far passare il messaggio che la disparità salariale tra uomo e donna non esista più.
Ma è proprio così?
Prima di tutto è bene sottolineare che questa presunta diminuzione della disuguaglianza si situa attorno all’1%. Stando ai dati infatti “il divario salariale globale (valore mediano) tra le donne e gli uomini si sta gradualmente riducendo: nel 2020 si attestava al 10,8% contro l’11,5% del 2018 e il 12,0% del 2016”.
Siamo quindi ben lontane da una situazione di reale diminuzione della disparità salariale.
Tutto ciò in un contesto di stagnazione salariale, quindi senza nessun aumento considerevole dei salari e con un aumento invece dei prezzi e del costo della vita.
Ma il problema è decisamente più ampio. Si tratta infatti di capire come questi dati sono costruiti e cosa rappresentano per accorgerci che in realtà evidenziano solo una parte della questione, nei fatti quella meno problematica.
Per calcolare infatti la disparità salariale ci si riferisce all’articolo 8 della costituzione Svizzera che afferma “uomo e donna hanno diritto a un salario uguale per un lavoro di uguale valore”.
Questo 10% o 15% di disuguaglianza si riferisce quindi a donne e uomini che svolgono lo stesso lavoro e hanno una differenza salariale definita unicamente dall’appartenenza di genere.
Ma sappiamo però che in realtà donne e uomini non svolgono lo stesso lavoro.
Infatti la maggior parte delle donne lavora a tempo parziale (mentre la maggior parte degli uomini a tempo pieno), le donne quindi percepiscono un salario reale inferiore di almeno il 20% degli uomini pur svolgendo un lavoro di ugual valore, ma a tempo ridotto. Un tempo parziale che non è sempre scelto, ma imposto da un’organizzazione sociale che carica il lavoro di cura e la “conciliazione lavoro famiglia” unicamente sulle donne.
Le donne poi devono interrompere l’attività professionale per motivi famigliari, nell’arco di una vita quindi gli anni di lavoro remunerato sono minori rispetto a quelli degli uomini.
Per tener conto quindi anche di queste differenze bisognerebbe considerare altri elementi e utilizzare un indicatore poco conosciuto ma più preciso che è quello della “differenza globale dei redditi da lavoro”. Un indice che tiene conto sia della differenza salariale mediana, che della media di ore mensili lavorate e del tasso di attività medio complessivo di uomini e donne all’interno di un determinato paese.
Utilizzando questo indice la differenza salariale tra uomini e donne in Svizzera ammonta a oltre il 40%.
Bisogna poi sottolineare che generalmente le donne lavorano in determinati settori che sono anche quelli nei quali i salari sono più bassi. Sono professioni che vengono svalorizzate in un’ottica patriarcale perché sono legate a caratteristiche tipicamente femminili (la cura, le attività domestiche, i servizi alle persone) per le quali non servirebbe una formazione e una professionalizzazione (sono infatti le stesse attività che le donne svolgono gratuitamente all’interno delle loro case, delle loro famiglie, quindi non sono viste come delle attività che richiedono competenze professionali).
Da questo punto di vista i dati parlano chiaramente: “i rami economici che presentano una quota elevata di posti a salario basso nel 2020 erano i seguenti: commercio al dettaglio (22,5%), confezione di articoli in pelle e simili (31,4%) e ristorazione (47,8%)”, settori dove la manodopera è prevalentemente femminile.
Sempre nel 2020 quasi mezzo milione di persone (491 900 contro le 480 300 nel 2018) occupa un posto a salario basso, di questo il 63,5% erano donne.
Inoltre dobbiamo ricordare che il divario salariale è strettamente legato alla posizione assunta da donne e uomini nella gerarchia professionale. La maggior parte delle donne occupa funzioni senza responsabilità che inevitabilmente prevedono salari più bassi (mentre sono molto poche le donne che occupano i posti alti delle gerarchie aziendali).
È interessante notare come il divario salariale tra uomini e donne è maggiore nelle posizioni di responsabilità rispetto a quello che si riscontra in quelle più basse. Più i salari sono alti più la differenza salariale risulta quindi elevata.
Una disparità che poi si riflette inevitabilmente anche sulle rendite pensionistiche, con salari tendenzialmente più bassi e con lunghi periodi di interruzione dell’attività professionale, le donne hanno rendite pensionistiche di circa il 37% inferiori a quelle degli uomini.
Siamo quindi ben lontane dall’eliminazione della disparità salariale e la tendenza che sembra affermarsi è al massimo quella di una parità al contrario, per la quale la differenza salariale diminuisce in una dinamica di diminuzione generale dei salari che fa sì che sono soprattutto i salari degli uomini a parificarsi a quelli delle donne e non il contrario.
Sembra che questa discussione e queste analisi siano in realtà funzionali a giustificare nuovi e pesanti attacchi alla vita delle donne, come per esempio la volontà di aumentare l’età di pensionamento delle donne. In fondo se il divario salariale si assottiglia perché non voler alzare l’età pensionabile a 65 anni come gli uomini, si chiede l’economia patriarcale…
Le ragioni sono invece molte: prima di tutto non è affatto vero che la differenza salariale reale è diminuita, le donne continuano a guadagnare meno, ad avere contratti precari e a tempo parziale e a essere impiegate come manodopera a basso costo. Su di loro ricade ancora la maggior parte del lavoro di cura e di riproduzione sociale non retribuito. Infine non pensiamo che la parità si raggiunga annullando i diritti o peggiorando le condizioni di vita delle donne. Non vogliamo una parità al ribasso, ma vogliamo poter lavorare per vivere bene e non vivere per lavorare.