La storia di violenza di questi giorni deve farci riflettere sui limiti del nostro sistema e su quanto poco siano tutelate le donne che sono vittime di violenze. Deve farci capire quanto la nostra società tolleri la violenza maschilista. La storia della donna fisicamente aggredita dall’ex compagno dopo un alterco all’autosilo Balestra di Lugano, che si è conclusa grazie all’intervento di terzi, è solo l’esempio più recente. Una donna che cerca di sottrarsi a una relazione fatta di violenze psicologiche e fisiche, che lascia il suo compagno e che viene per questo brutalmente aggredita, una donna che denuncia, ma che non trova da parte di chi dovrebbe aiutarla – la polizia, l’ospedale, la giustizia – la dovuta comprensione e protezione.
La premesse di questa storia sembrano quelle di molte altre, con esiti più drammatici. Sorprende la mancanza di indignazione di fronte ad una situazione oggettivamente sbagliata: come è possibile che la donna che è stata vittima di aggressione non sia protetta ma sia costretta a vivere con la paura di essere nuovamente aggredita? Perché un uomo che ha già mosso violenza contro questa donna è in libertà? Perché in un caso del genere non vengono immediatamente presi provvedimenti restrittivi nei confronti dell’uomo?
Ci ricordiamo il caso di Monte Carasso della primavera scorsa? Una donna terrorizzata dall’ex marito, che chiede ad un’amica di accompagnarla a fare jogging perché ha paura ad andarci da sola. Non serve a nulla, lui la uccide e poi si toglie la vita.
Purtroppo, nel nostro sistema, proteggersi dalla violenza maschile sembra un’impresa impossibile, a guardare gli eventi recenti del nostro Cantone. Ce lo dicono anche chiaramente i fatti emersi nel servizio di Falò del 18 novembre scorso e gli esiti recenti dell’inchiesta per molestie sessuali e mobbing alla RSI.
Forse qualcosa si può fare e dire solo quando i colpevoli sono in pensione, oppure sono stati sostituiti, oppure i fatti sono caduti in prescrizione. Considerazioni che si possono fare mettendo insieme le tristi storie delle vittime del funzionario DSS, che nonostante il coraggio di denunciare, non hanno ricevuto all’epoca dei fatti il dovuto ascolto ed accompagnamento e che ancora oggi si trovano a dover lottare contro un sistema sbagliato, omertoso, patriarcale e connivente.
Il caso RSI sembrava avere prospettive diverse, arrivava in un contesto storico mutato dai movimenti #Me Too, era partito da un gruppo di persone più numeroso, all’apparenza coeso. Potrebbe essere questa una prima risposta, forse troppo ingenua, alla domanda come si può reagire? In gruppo, con solidarietà e sorellanza. Così, si sarebbe potuto ragionevolmente credere che sarebbe stato possibile alzare un polverone. Invece è stato tutto insabbiato abilmente, permettendo ai molestatori di essere protetti da un sistema che è sbagliato. Le vittime, di fronte all’iter legale, coscienti delle possibili ritorsioni, della sofferenza di dover raccontare cose molto dolorose con il rischio di non essere credute e di subirne personalmente le conseguenze, hanno capito che la giustizia era una chimera e che denunciare sarebbe stato più doloroso che tacere e subire. Possiamo essere anche certe che delle 34 persone che non hanno portato avanti le segnalazioni di molestie, ve ne sono altrettante e più che hanno lasciato perdere a priori.
Nonostante siano passati tanti anni dai fatti al DSS, il caso della RSI e l’evidente mancanza di protezione per le donne vittime di violenza dimostrano chiaramente che bisogna ancora lottare per il cambiamento e per ottenere giustizia.
Il collettivo femminista Io l’8 ogni giorno ha già elaborato una serie di proposte concrete nel Piano d’azione femminista per l’eliminazione della violenza sulle donne e continuerà a riflettere e a battersi, perché vogliamo vivere libere dalla violenza!
Se toccano una, rispondiamo tutte!