Oggi, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, nonostante la pioggia, il buio e il freddo, siamo scese in piazza per far sentire la nostra voce. Ringraziamo di cuore tutte le persone che hanno voluto partecipare alla Manifest-Azione di Giubiasco contribuendo così a creare un’atmosfera speciale e toccante.
Si è sentito tanto parlare, in questi giorni, dell’importanza di ‘rompere il silenzio’, dell’importanza che le donne denuncino le violenze subite. “Rompere il silenzio” è lo slogan della recente campagna cantonale contro le violenze domestiche ed anche del servizio di Falò sul caso dell’ex-funzionario DSS.
E per una volta, sotto i riflettori sono finite le parole delle vittime. Parole che hanno saputo toccare e colpire tutte noi, parole in grado di dire le ferite e il dolore ma, soprattutto, parole capaci di far vedere la forza, la generosità e il coraggio delle donne che denunciano.
Perché – purtroppo – serve ancora molta forza, molta generosità e molto molto coraggio per denunciare. E si deve anche essere disposte a pagare il prezzo di tale coraggio. Perché ciò di cui si parla meno spesso è quanto sia doloroso e pieno di ostacoli il percorso delle vittime che decidono di rompere il silenzio.
Quante volte le donne che denunciano non vengono ascoltate e credute? Quanto volte vengono lasciate sole? Quante volte sul banco degli accusati finiscono proprio le vittime?
I loro comportamenti: come erano vestite, se avevano bevuto, perché hanno aspettato così tanto prima di denunciare? Riuscite ad immaginare la sofferenza nel dover raccontare e riraccontare le violenze subite? Di vedere pubblicati sulla stampa dettagli intimi che si vorrebbero solo dimenticare?
Con la flashmob abbiamo voluto puntare il dito verso ciò che resta invisibile: i silenzi, l’omertà e la complicità di chi fa finta di non vedere, di non sentire, di non capire.
Di chi banalizza. Di chi si limita a scherzare su un collega che ha un debole per le ragazzine. Di chi alla donna che denuncia le minacce dell’ex-marito violento, risponde: “signora, e lei cosa gli ha fatto a quel pover uomo per farlo arrabbiare così?”.
Di chi di fronte a una ragazza in lacrime, la giudica come fragile e poco credibile. Di chi non trova strumenti e risorse per contrastare gli uomini violenti, ma è disposto a promulgare leggi per incarcerare preventivamente ragazzini sospettati di radicalizzazione. Di chi continua a dire che non si può fare nulla di più, che i servizi ci sono e tutto va bene…
Abbiamo voluto puntare il dito contro le istituzioni dello stato, contro la giustizia, contro la polizia, complici di non prendere sul serio coscienza della gravità della violenza maschile sulle donne, complici perché non vogliono ascoltare quello che noi donne ormai da tempo chiediamo.
Fin dalla creazione del nostro collettivo abbiamo cercato in ogni modo, con manifestazioni, con prese di posizione, con incontri di discussione, di fare conoscere il problema della violenza maschile sulle donne, di sensibilizzare e di informare, di cercare collettivamente delle risposte.
Abbiamo pubblicato la scorsa primavera un Piano d’azione femminista per l’eliminazione della violenza sulle donne. Un piano d’azione in cui abbiamo presentato una lista di proposte concrete, applicabili fin da subito. Ma non siamo state ascoltate.
Il cosiddetto Piano d’azione cantonale sulla violenza domestica, presentato ieri da tre consiglieri di stato, non contiene praticamente nessuna delle misure da noi richieste. Misure che riprendono in larga parte quanto previsto dalla stessa Convenzione di Istanbul o quanto già applicato in altri Cantoni o nazioni.
Siamo molto deluse, deluse e arrabbiate per quanto presentato ieri: serve urgentemente un vero piano d’azione cantonale, mentre quello che abbiamo ora – dopo due anni di lavoro – altro non è che una semplice fotografia! Una fotografia anche molto edulcorata, perché a leggere il piano cantonale sembra che tutto vada bene, mentre quello che vediamo noi, quello che ci raccontano le molte donne che si rivolgono a noi per chiedere ascolto, aiuto e consigli è una realtà ben diversa, fatta di difficoltà a conoscere e accedere ai servizi, fatta di vittimizzazione secondaria, di solitudine, di paura, di impossibilità ad ottenere giustizia, di costi eccessivi,…
A un giornalista che giustamente ieri ha chiesto come mai nel Piano d’azione cantonale non si trovi traccia delle proposte formulate dal collettivo Io l’8 ogni giorno, è stato risposto che le misure devono essere commisurate ai bisogni e alle risorse.
Vogliamo dunque sapere quanto vale, per il nostro Consiglio di Stato, la vita delle donne? Quante donne devono ancora morire, essere violentate, aggredite, minacciate, prima che la politica e le istituzioni prendano finalmente coscienza della gravità della violenza che quotidianamente ci colpisce e adottino delle misure realmente efficaci?