Di Erika Zippilli
La discriminazione delle donne abita anche nel linguaggio. Sono trascorsi più di 30 anni da quando Alma Sabatini, nelle sue Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua, affermava che “l’uso di un termine anziché di un altro comporta una modificazione del pensiero e dell’atteggiamento di chi lo pronuncia e quindi di chi lo ascolta.” Seppur con lentezza, grazie alla pressione dei movimenti femministi, la declinazione al femminile almeno di determinate professioni è sempre più condivisa. Il linguaggio, creazione culturale per eccellenza, è lo specchio di ciò che una società ritiene importante. Periodicamente tornano alla ribalta stigmatizzazioni quali “le nuove forme sono brutte”, “suonano male”, “si può usare il maschile come neutro”. Il linguaggio non è mai neutrale. Si tratta di una questione seria. Poi se ne può discutere anche al bar, purché con cognizione di causa.
Le interessanti considerazioni espresse da Carlo Cavalli nell’articolo “Il politically correct perde quota” in merito alla decisione presa dalle compagnie aeree di “riqualificare” gli annunci di benvenuto a bordo sostituendoli con una terminologia cosiddetta neutra, meritano qualche breve riflessione.
Nel frattempo pare che il portavoce della compagnia Lufthansa abbia fatto sapere che: “Per noi è importante, al momento del saluto, tenere in considerazione tutti.”. TUTTI chi? Il cosiddetto “gender fluid” vola basso d’entrée de jeu, vista la scarsa attenzione che riserva alle passeggere-di-sesso-femminile!
Molti/e di noi, quando devono affrontare un cambiamento, assumono atteggiamenti quasi moralistici, come se la difesa della lingua equivalesse alla difesa di un territorio sacro. Al contempo si accettano senza batter ciglio i barbarismi provenienti dall’inglese, oramai assurta a lingua franca del mondo. Il soggetto maschile e quello femminile producono pensieri e parole differenti. Ma se il linguaggio è il prodotto di una visione unilaterale del mondo, elaborato dal modello maschile che resta socialmente dominante, al femminile sono negati espressione e valore propri. Ed è noto come le parole che assorbiamo fin dalla più tenera infanzia influenzino il processo di formazione della nostra identità, che si costruisce appunto anche attraverso la pratica linguistica.
Da quando il vocabolo gender – che agli inizi sembrava aprire la strada al riconoscimento sessuato anche del linguaggio – è entrato per la porta principale finendo in bocca a politici e Presidenti, ha cessato di essere un termine fluido e in grado di essere discusso, interpretato, aperto anche alla contestazione. È così che le buone intenzioni vanno a planare dritte nell’inclusività, soffocando le differenze. Diverso è infatti il percorso tra chi punta al riconoscimento giuridico e istituzionale, e chi invece ritiene che esista qualcosa di più importante che viene prima, che va oltre la legge e riguarda il cambiamento radicale. La trasformazione non si gioca sul piano dei diritti e delle semplificazioni. Scriveva Ida Dominijani su Internazionale dell’agosto 2020 “Quando termini come sesso genere orientamento sessuale e identità di genere, che fanno parte del dibattito teorico politico femminista e lgbtq, vengono trasferiti e cristallizzati in un documento giuridico, gli stessi termini si irrigidiscono e diventano normativi e divisivi.”
L’italiano, a differenza ad esempio dell’inglese, è una lingua che vede declinati per genere, oltre ai pronomi, gli articoli e i sostantivi. Fin dall’infanzia la scuola insegna che il plurale va al maschile anche se nel gruppo appare un solo elemento – persona, animale o cosa – di genere maschile. Ecco alcune domande più che lecite e sensate: perché uno dei generi deve prevalere assorbendo l’altro e annullandolo, anche quando è in minoranza? Perché non viceversa? Chi dice che il genere maschile corrisponde di per sé all’universale?
Per una trentina d’anni la mia professione è stata quella di lavorare con/sulle parole trasportandole da una lingua all’altra. Ho dovuto fare quotidianamente i conti con questa cancellazione del femminile, optando spesso per la creatività, inventando strategie per dargli visibilità, evitando l’appiattimento sul maschile. Ho toccato con mano la realtà del vocabolario e della grammatica permeati da una visione androcentrica limitante, che può dar luogo a pratiche fortemente discriminatorie.
Nella fattispecie le novità consisterebbero in segni grafici, chiamati a cancellare l’identità del genere di appartenenza. Personalmente non mi sento attratta dall’idea di vestirmi da chiocciola, o di finire in braccio a schwa e asterischi. Si spendono tempo e parole, spesso a vanvera, scrivendo sui social di tutto e di più, ma non si vuole concedere quanto meno la sbarretta per la doppia declinazione!
Gli strumenti ci sono: meno pigrizia, sostantivo di genere femminile.
Pigrizia da sempre nemica della Rivoluzione.