Qui di seguito riportiamo parte dell’intervento di Monica Bisogno, tenutosi in occasione del secondo incontro del ciclo organizzato dal collettivo Io l’8 ogni giorno volto a realizzare un Piano d’azione femminista contro la violenza sulle donne.
“Sembra che qualcosa esista solo nel momento stesso in cui lo si palesi o lo si renda visibile. Questo vale soprattutto per ciò che ci fa paura, che ci fa orrore, che ci costringe a confrontarci con la sofferenza, quindi negare la realtà è il primo modo per proteggerci da tutto questo, un po’ come fa lo struzzo: non ti vedo, non esisti.
Soprattutto da quando sono diventata cofondatrice di Dialogos mi capita di confrontarmi con diverse persone sul tema della violenza sessuale. Nella mia mente questo fenomeno ha preso la forma di un prisma dalle svariate facce ed è per questo motivo che mi sono sempre più convinta che per poterlo combattere, questo prisma debba essere osservato e affrontato da angolazioni diverse. Una di queste angolazioni o facce corrisponde al tema della negazione: di violenza sulle donne se ne parla poco e quando lo si fa, purtroppo, spesso se ne parla male.
Ci piace pensare che questo fenomeno non esista, o che sia marginale, perché viviamo un una società civile, emancipata e progressista, rispettosa del prossimo, rispettosa delle donne. Questo meccanismo di rifiuto, che è uno dei tanti ostacoli che formano una mentalità collettiva e ben radicalizzata, non appartiene solo agli uomini ma anche alle donne. Questo è, secondo me, il primo muro che le associazioni, gli enti e le altre diverse istituzioni devono abbattere perché la violenza sulle donne c’è in Svizzera, la violenza sulle donne c’è in Ticino!
Abbattere il muro della negazione collettiva significa rendere reale, inconfutabile, tangibile il fenomeno della violenza sulle donne. A sostenerci in questo compito ci vengono in aiuto gli studi, le inchieste, le statistiche, ma in questi mesi mi sono resa conto che parlare di cifre non è sufficiente, perché per quanto alcuni dati siano sconcertanti, in fondo sono solo numeri. E soprattutto per chi rifiuta l’idea dell’esistenza di questo problema, i numeri, le statistiche sono solo un’ipotesi e soprattutto un’astrazione.
Quindi mi sono chiesta: io che cosa posso fare in merito? Se le cifre non sensibilizzano, che cosa lo fa allora?
Le persone, la loro voce, le loro testimonianze.
Io stessa faccio parte di quelle cifre. Io stessa sono uno di quei numeri che appaiono sulle statistiche dei casi dimenticati. Io sono uno di quei numeri che non si vogliono vedere, ma io sono anche e soprattutto Monica, sono una vittima, una persona, non un numero. E come me ce ne sono centinaia, migliaia. Le statistiche e gli studi fatti dalle istituzioni sono importanti perché ci danno un quadro complessivo del fenomeno, ma non riescono a colpire nel segno e questo perché i numeri non parlano, non hanno una voce, quindi bisogna dare voce ai numeri, bisogna dare un nome ai numeri, i numeri devono diventare persone.
Il principio di negazione rispetto alla violenza non è solo una forma di pensiero collettivo, ma anche individuale, spesso delle vittime stesse. Noi neghiamo che sia successo, neghiamo che un evento, un singolo evento possa stravolgere e determinare la nostra vita. Neghiamo che ciò che avviene in seguito alla violenza, gli stati d’animo, le paure e le fobie, le scelte future, le ripercussioni che si susseguono nella nostra esistenza, siano correlate a quel fatto. Neghiamo, cancelliamo, dimentichiamo, quindi stiamo bene. Le persone intorno a noi stanno bene. Il mondo sta bene. Ed è interessante come, da questo punto di vista, le vittime e la società utilizzano lo stesso meccanismo di difesa: non ti vedo, non esisti.
In questi ultimi mesi mi hanno contattato diverse donne vittime di violenza, mi hanno scritto, telefonato, hanno voluto incontrarmi di persona. Ad ognuna di loro ho voluto dedicare tempo e spazi di condivisione, un momento di solo ascolto e accoglienza. Ben presto però mi sono resa conto che tante volte era faticoso raggiungerle tutte, fare per ognuna di loro quello di cui avevano bisogno ed era anche faticoso a livello emotivo. Quindi ho provato a creare dei gruppi, per fare in modo che fosse più semplice per me, ma anche più utile per tutte.Il detto che “l’unione fa la forza”, in questo caso, vale sicuramente, ma non ci sono riuscita perché mi mancava un vero posto, un luogo che desse fiducia, che desse sicurezza, protezione e tutela.
Così ho iniziato a immaginare e sognare di aprire dei centri di ascolto, di auto-aiuto dove potersi incontrare periodicamente, un posto dove è possibile fare il primo passe e dire “è successo anche a me”, non voglio più negarlo e nasconderlo, non voglio provare vergogna per ciò che ho subito. Un posto che vada incontro alle esigenze delle vittime, che sia facilmente raggiungibile, che sia gratuito, che sia in un ospedale, in una clinica, in un consultorio, dove se mi dovessi sentire male, c’è chi mi può assistere. Ho immaginato un posto così in ogni centro importante del Ticino, della Svizzera, un posto dove i numeri diventano persone.
Il fenomeno della violenza sessuale è un prisma dalle molteplici facce, ognuno nel proprio campo, attraverso le proprie professioni può fare qualcosa, è utile tutto, non esiste un solo modo per risolvere il problema, non c’è un modo migliore di un altro; c’è la volontà, la lotta e soprattutto la sinergia di ogni singola forza insieme a tutte le altre.
Dialogos è un’associazione molto piccola e giovanissima, siamo nati praticamente il 15 gennaio di quest’anno. La pandemia ha rallentato e bloccato tutta una serie di eventi che avevamo in programma. Questo periodo di pausa però ci ha dato la possibilità di riflettere su come e dove incanalare le nostre energie.
Il progetto dei centri di auto-aiuto è sicuramente il nostro progetto più grande e articolato, ma io ho fiducia nel nostro piccolo gruppo di sole quattro persone perché dalla nostra abbiamo la speranza e in qualche modo la tenacia dei sognatori. Nel frattempo però prima che questa cosa prenda vita veramente abbiamo in corso altri due progetti molto belli.
Il primo è iniziare una collaborazione con uno studio di psicologi che prende a carico anche le vittime di violenza. L’idea è di fornire non solo uno spazio diverso di ascolto e condivisione -quindi in qualche modo un piccolo formato di quello che un giorno sarà il centro di auto-aiuto – ma di fare da ponte con altri professionisti, come per esempio nutrizionisti, fisioterapisti, altre persone che in qualche modo possono dare una mano nella risalita, nella ripresa, nella rinascita di una vittima di violenza e/o di abusi.
Fornire informazioni di vario genere, mettere in contatto le vittime con enti, associazioni, consultori legali o altro, se si necessita anche accompagnandoli fisicamente. Attiveremo tra l’altro un numero di telefono dedicato, solo dell’associazione, con orari e giorni prestabiliti. Questa scelta praticamente è stata dovuta dal fatto che In questi mesi io ho utilizzato il mio telefono, e anche se mi sono sentita molto utile, è stato difficile sia dal punto di vista emotivo, sia pratico perché è veramente molto difficile dire a qualcuno che ha bisogno di parlare “scusa in questo momento non posso risponderti”.
L’altro progetto che abbiamo in corso è un progetto invece, diciamo, in qualche modo, un po’ singolare però io trovo assolutamente complementare e incline a quella che è la filosofia della nostra associazione. È un libro che sta scrivendo Daniele Agatino, che è cofondatore con me di Dialogos. È evidente che quasi tutto il nostro fare all’interno dell’associazione nasce dall’esperienza diretta; infatti dopo tanto discutere e raccontare di me, è nata spontanea l’idea di raccontare l’altra faccia della medaglia, per cui Daniele sta mettendo nero su bianco una testimonianza del suo essere uomo, racconterà come anche lui si sia trovato a sperimentare quella che viene definita la mascolinità tossica. L’idea non è solo di pubblicarlo, ma di creare una tavola rotonda di uomini normali che si trovino a parlare del loro rapporto con le donne. Io questo penso che sia veramente importante perché non bisogna partire dal presupposto che la violenza, gli abusi, vengano fatti solo da uomini malati, patologicamente predisposti, seriali o di culture diciamo in qualche modo che noi consideriamo meno progressiste.”
Monica Bisogno, cofondatrice dell’associazione Dialogos